Ma Cosa è rimasto del tempo delle maschere?
Diverse settimane fa, cioè da quando ho iniziato a ragionare su questo articolo, mi sono continuamente chiesta che significato hanno per noi oggi le nostre maschere dei Mamuthones e Issohadores.
Sono partita da molto lontano per cercare di darmi una spiegazione sull’origine e sull’evoluzione del rito nel corso dei secoli.
E come tutte le tradizioni che si rispettino, in particolare quelle agro-pastorali alle quali questo rito sicuramente era legato, anche questa nel tempo ha perso il suo significato profondo.
Il tempo
C’è un passo della Bibbia che mi ha fatto ragionare un po e che sarà anche il filo conduttore di tutto l’articolo.
Dal libro del Qoèlet (Qo 3,1–11)
Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato.
Un tempo per uccidere e un tempo per curare,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per fare lutto e un tempo per danzare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per conservare e un tempo per buttar via.
Un tempo per strappare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
Che guadagno ha chi si dà da fare con fatica?
Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino. Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine.
Un tempo per tutto, insomma, anche per le nostre maschere.
Il tempo dei Mamuthones e Issohadores
I Mamuthones e Issohadores erano delle figure legate al tempo e facevano parte integrante di una società completamente dipendente da esso e da una natura che non si poteva piegare.
Il senso stesso dell’esistenza era diverso.
Un Dio che era al centro dei riti e delle preghiere di chi cercava conforto, aiuto, buon auspicio.
Un Dio cambiato poi nei secoli.
Si pregava davanti a una Perda Longa, nelle profondità di un pozzo sacro, ci si inchinava di fronte all’acqua sacra, ci si inginocchiava all’interno di un tempio e nei tempi più recenti in una Chiesa.
Tutto con il tempo è profondamente cambiato, persino il rito, che oggi ci invidiano e che attira migliaia di visitatori ogni anno, non è più lo stesso. Le persone e le motivazioni non sono più quelle di prima.
La società oggi è slegata dal tempo ed esso non è più colui che decide del nostro fare.
La società dei Mamuthones e Issohadores nei primi del ‘900
Come ho accennato prima tutti i riti e i mascheramenti giunti a noi sono retaggi di una società legata al tempo, alla natura e agli eventi che essa generava.
I nostri nonni, bisnonni e avi in generale, erano pastori e agricoltori, mezzadri e massajos. La loro esistenza era segnata dal ciclo delle stagioni, da un’annata buona e una disastrosa, dall’acqua abbondante o dalla siccità e cosi via discorrendo.
Ogni evento naturale aveva una sua preghiera.
Tempo fa ho raccontato de “Sas Doghi Paragulas”, una antica preghiera recitata durante i temporali. Come questa ce n’erano a dozzine.
I nostri avi erano credenti, chi più chi meno, ma lo erano. Persino gli uomini partecipavano attivamente alle funzioni e esistevano due confraternite.
Sacro e Profano convivevano in perfetta simbiosi.
Per carità anche oggi, ma a volte ho l’impressione che non abbiano lo stesso significato di un tempo!
Se prima quindi i riti e le “sfilate” (oggi le chiamiamo orrendamente così) erano legate ai riti della terra oggi a cosa lo sono?
Tutti i Mamuthones e Issohadores appartenevano ad una categoria legata in qualche modo al lavoro delle campagne e dalla natura traevano il sostentamento.
Pastori e Massajos che erano molto attenti all’equilibrio con queste forze e con esso stabilivano un contatto primordiale.
E’ facile credere che il rito delle nostre maschere era quindi legato a queste credenze e disattendere in un certo senso l’usanza poteva portare a gravi conseguenze per il raccolto ad esempio.
Anche se magari non lo sapevano comunicare apertamente avevano bene in testa cosa voleva dire indossare quella maschera!
Questi riti nascono in una società nella quale l’uomo è del tutto dipendente dai ritmi della natura, e dalle sue manifestazioni.
Esso non ha alcun controllo sulle forze che regolano la sua vita e quella della sua comunità e credendo che siano governate da forze intelligenti perché ne nota la regolarità di comportamento, pensa di comunicare con loro in qualche modo chiedendo di non essergli nemiche.
L’idea forte è che anticamente gli uomini devono aver pensato che ci fosse una forza intelligente per aver creato qualcosa di così perfetto.
Quindi se è intelligente in qualche modo possiamo comunicare con lui e questi riti sono un modo per ricordare a Dio il suo patto, i suoi doveri e li facciamo quando ci arrivano i segni per esempio del cambio delle stagioni.
E oggi?
Adesso che la nostra vita NON dipende più da questi ritmi abbiamo dimenticato perché lo facevamo e crediamo di poterlo fare per far stupire persone che non capiscono cosa vedono, ma di fatto non lo stiamo capendo nemmeno noi.
Un rito inutile quindi?
La domanda, provocatoria, è sempre la stessa: adesso che non siamo più legati al tempo, alla terra e i suoi cicli, cosa stiamo rappresentando?
Ma soprattutto, a parte Sant’Antonio, che credo sia la tradizione più autentica che abbiamo, quando esportiamo in giro per la Sardegna quello che ormai non è più un rito, cosa stiamo effettivamente rappresentando?
Seguendo questo ragionamento qual’è la motivazione che spinge ad indossare pelli e campanacci, curittu e soha? Qual è il significato di questa mascherata?
E se un turista o una persona qualunque interessata alle nostre maschere ne chiede il significato cosa si risponde?
Quesiti che mi pongo spesso anch’io e forse ci dovremmo porre tutti.
Io sono nato squadrato per fare il Mamuthone
Può sembrare banale ma tziu Costantinu Atzeni l’ha ribadito con orgoglio nel documentario il Riso Sardonico.
“Mi nasce orgoglio, energia”, diceva.
Dopo giornate intere passate nei campi a spaccarsi la schiena, questo momento sacro era atteso in modo particolare. Ci si riuniva a porte chiuse in un cortile e il resto della comunità aspettava con ansia quel suono di campanacci.
Un suono arcaico, liberatorio, scaccia spiriti.
Era l’inizio del Carnevale.
L’inizio di una nuova stagione che non poteva essere disattesa.
Conclusioni
A partire dagli anni ’50 quando ancora i componenti del gruppo erano pastori o contadini e che aspettavano queste poche occasioni per uscire e far baldoria, la maschera ha subito una profonda trasformazione.
E oggi quando ci indigniamo per ogni cosa dovremo chiederci cosa effettivamente dobbiamo salvare! Ce la prendiamo con maschere e presunti riti che spuntano in ogni paese della Sardegna e poi partecipiamo insieme a queste carnevalate.
Non abbiamo capito che il rito non è più lo stesso e quel tempo che tanto cercavamo di rievocare, non esiste più.
Oggi, sfilare per un gruppo o per l’altro è solo una questione economica. Brutale da dire così, ma è la verità.
Per poter mandare avanti le Associazioni l’unico modo è quello di fare la comparsa per questa o quella manifestazione, complici finanziamenti a pioggia che finanziano le sagre più disparate.
Non ho la pretesa di avere a portata di mano una soluzione e forse mi sto arrabattando troppo. Magari è giunto il momento che anche il rito senza più una motivazione legata alla terra finisca così come era iniziato.
Il problema è capire in che cosa questo Rito si è trasformato.
Intanto posso dire che la tanto decantata Identità non è poi così scontata da definire.